“Che cosa si vede?”, è forse questa la domanda ricorrente che attraversa la storia dell’arte e in particolar modo il naturalismo. Il primo critico d’arte della Modernità, Charles Baudelaire, scriveva nel suo celebre sonetto “Corrispondenze” che la Natura è “una foresta di simboli”. Solo lo sguardo del poeta o dell’artista è in grado di rivelare le corrispondenze segrete che formano la trama invisibile, l’eco nascosta della realtà. Nelle esperienze artistiche del 900 e contemporanee, il simbolismo hanno progressivamente ceduto il passo nei confronti di pratiche che, in estrema e rozza sintesi, potremmo definire spirituali o negative. Prendendo spunto da un saggio di Daniel Arasse, “non si vede quasi niente” e questo specialmente nella pratica della pittura.
La ricerca artistica di Franco Marrocco si presenta attraverso variazioni tematiche. In quelli che si possono definire veri e propri cicli pittorici, l’artista ha da tempo sperimentato una originale “pratica del colore” attraverso un procedimento che abbina sovrapposizioni e velature. Tale procedimento viene applicato su tele composite ma anche su opere su carta. La composizione di più tele, a formare alla fine un unico quadro, è determinata dal fatto che Marrocco lavora in orizzontale; tele o carte sono, infatti, poste su un grande tavolo. L’inquadratura finale è dunque realizzata mediante un innalzamento verticale sulla parete. Tutto questo, oltre a riguardare tecniche di montaggio e di supporti, determina la condizione che “ciò che vede” l’artista non corrisponde a ciò che vediamo noi… alla fine.
Nei suoi cicli pittorici recenti l’artista riflette, coglie l’eco, su una peculiare capacità-condizione negativa attribuita all’astrazione e cioè l’assenza di un luogo, persino di un frammento d’immagine della realtà. Marrocco usa il colore come fondo e su questa composita materia traccia dei segni non con il pennello ma con stecca di legno. Questa stecca è adoperata, ancora una volta, “in orizzontale”. In tal modo, le opere recenti di Franco Marrocco segnano la traccia, l’impronta di un bosco, di un luogo reale ma solo ed esclusivamente all’interno di una immagine e di uno sfondo, o meglio di un fondamento, pittorico. Potrebbero essere definite opere paesaggistiche, se anche l’idea e il tema del paesaggio non fossero entrambi condannati immediatamente a essere rinchiusi in uno stile o in una maniera.
E’ opportuno e determinante sottolineare come il punto di partenza per l’artista non sia un frammento mnestico personale (almeno non in maniera intenzionale) e nemmeno una immagine fotografica. Tutto si gioca all’interno dello spazio pittorico, unica ed esclusiva “realtà” nella costruzione e nella presentazione dell’immagine. Semmai, in questo procedimento e insieme esperienza pittorica si manifesta una sorta di metaforica volontà multimediale non nella costruzione e nel montaggio dell’immagine ma come allusione che definisce il risultato finale. Ciò che si vede, alla fine, potrebbe essere quasi come una immagine fotografica di un paesaggio, di una foresta o di una “eco di un bosco”.
In questa occasione, Marrocco presenta una serie di nuovi lavori, sempre all’interno del ciclo “Eco del Bosco”, dedicati all’acqua e soprattutto alla mancanza di acqua. L’aspetto concettuale e tematico, all’interno dell’intero progetto artistico, viene ridefinito, sia come indice che come funzione rappresentativa, soprattutto attraverso il valore residuale di alcuni elementi materiali come il vetro, l’acqua, il bronzo e ovviamente la pittura. La materia, l’acqua ad esempio, assume così la funzione di un “atto linguistico”, diviene un enunciato performativo che rende attiva e complessa l’opera o l’installazione. La sostanza degli elementi materiali non si configura (e trasfigura) solamente come eco o ricordo ma si presenta come una forza attiva che mette in gioco sia i complessi rapporti naturali che sociali; una maniera di affiancare l’arte all’antropologia.